mercoledì 2 ottobre 2013

Non-Recensioni: Mood Indigo, la Schiuma dei Giorni.

Il titolo. Mood Indigo si potrebbe tradurre con “Umore dal colore indaco”, e fareste bene ad ascoltarlo mentre leggete questa non-recensione. Come va? È partita? Bella eh?

Umore dal colore indaco. Duke Ellington, autore del suddetto brano, è un grande esponente dell’espressionismo musicale: le sue intenzioni erano quelle di colorare con la musica, creare dei quadri musicali che riuscissero ad emozionare all’ascolto, creando una superstrada, senza particolare spese di costruzione, sindacati, politica stantia, illuminata da un sole esplosivo, tra le orecchie…ed il cuore.

Era il 1927 quando Ellington tagliava con le forbici il filo e inaugurava l’apertura della strada. Nel 2013, un altro artista inaugura il primo svincolo della suddetta: una autostrada, costruita artigianalmente, fatta di terra da ranch, alberi per metà al sole e metà sotto la pioggia, aperta al passaggio delle sole auto trasparenti, che collega direttamente il cuore…alla vista, e viceversa.

Michel Gondry, che ha entusiasmato con la poetica del suo “eterno bagliore di una mente candida” (uso questa costruzione perché la traduzione italiana mi uccide), e ha divertito con i tentativi del solito Jack Black di ricostruire decenni di cinema per salvare un negozio di distribuzione video (tanto per citare un paio di opere), taglia il filo dorato della seconda uscita a destra, e poi dritto…fino al cuore.

E poi? Pugni. Pugni. Pugni. Tanto che dal cinema esci livido, con la pelle che prende quel colorito strano, bluastro, tendente all’indaco.

Certi film ti fanno stare sveglio (se li vedi di sera, altrimenti ti fanno stare semplicemente fermo a guardare nel vuoto) dopo averli visti: per le ore successive sei immobile a cercare di cucirti le ferite e i pensieri, cercando una coesione che non esiste.

Due bambini, un maschio e una femmina, giocano sul bagnasciuga di un litorale non ben localizzato, nel mondo per così dire. La risacca non è particolarmente pericolosa e la schiuma del mare li sfiora appena mentre i due spensierati corpi tentano di costruire castelli di sabbia. Se ci aggiungete (spero la stiate ancora sentendo) la tromba andante di Duke nel suo umore indaco avete una nitida immagine di quello a cui ho pensato nella prima parte di questo film.

Non parlo di trama perché è una storia da ascoltare nel modo giusto, quindi leggete il libro o andate subito a vedere il film. Io non saprei cogliere altrettanto bene le emozioni che quelle immagini danno o quelle parole ispirano, se non immergendovi nel mare delle mie sensazioni, quelle provate sull’autostrada del cuore.

L’Amore è centrale in questo viaggio e da inizio a tutto: il protagonista si alza di scatto e grida “Non posso più sopportarlo questo senso di solitudine: ANCH’IO PRETENDO DI INNAMORARMI!”. Detto fatto, e con i tempi degni di una favola, in un turbine di eventi incontra lei, Chloè.

I due bambini costruiscono il primo piano della sontuosa villa di sabbia e mentre si accingono ad ordinare le basi per il secondo piano, si toccano dolcemente le mani, e si guardano negli occhi, esternando entrambi i due sorrisi più belli che siano mai esistiti. Non lo sanno, ma mentre il sole riflette sulla superficie liscia e perfetta delle loro dentature, stanno trasformando la realtà in un miracolo. L’acqua continua a sfiorarli dando quel fresco tepore e formicolio che solo l’innamoramento può darti.

L’autostrada del cuore non è una strada britannica, quindi la guida è “normale”: si guida a destra, dalla parte degli alberi illuminati dal sole, dove non c’è un anima e si può andare a velocità sostenuta e ritmata, sempre dritto, con i finestrini abbassati e l’aria che ti accarezza i capelli.

Quando si è bambini si può avere tutto, si può pretendere il massimo della felicità, perché si è capaci di trasfigurare il secondo piano di un castello di sabbia nella cosa più bella che si abbia mai avuta, quella di cui si aveva bisogno proprio in quel momento. I due bambini mano nella mano buttano su carta i progetti del terzo piano e continuano a sorridere.

L’Amore è trattato così nel film, come se i due innamorati fossero due bambini, tra i loro giochi, i loro divertimenti, i giri di parole, i battibecchi benevoli, tra un pranzo e l’altro, cucinati da un cuoco che fa da padre, e un topo che fa da balia. Tutto è colorato, arcobaleno, e senza musiche smielate in sottofondo, che il protagonista odia, perché odia qualsiasi musica non abbia Chloé al centro, perché sa che la musica migliore è lei, non c’è bisogno d’altro. Ma in tutto questo…quando arriva la vita?

Improvvisamente nel nostro viaggio sull’autostrada del cuore c’è un camion della spazzatura. Proprio lì. Sulla parte destra. Dove c’è il sole. Bisogna rallentare, costretti dal camion che non da spazio di manovra per superare, a meno che non si decida di andare sull’altra corsia, quella della pioggia.

Chloé si ammala e anche la malattia viene vissuta in maniera infantile, cercando di far finta che non ci sia, cercando di non pensarci o di menti re a se stessa e agli altri sulle reali condizioni in cui versa. Una ninfea, un fiore, gli cresce nel polmone, e più cresce più la soffoca e gli fa male. La vita è arrivata, e mostra lo scontrino.

Il film accoglie tutto questo con un artigianalità di effetti speciali, riprese in stop-motion, location irreali nella loro irrealtà, quasi cercando di camuffare la vita, senza volontariamente riuscirci. Troppo facile usare effetti speciali alla Hollywood, con quelli sì che saremmo riusciti a far finta di non-vivere. Ma la vita sfugge alle nostre prese, come un’anguilla che non vuole essere cucinata, e si muove all’impazzata, anche da morta, tagliuzzata sul piatto della portata. E poi? Tutto per terra, la porcellana si infrange sul pavimento spaccandosi in mille pezzi, buttati lì, come se non ci fosse un domani, come se non ci fossero conseguenze, tanto c’è chi pulisce poi. Proprio come i bambini.

La mano della bambina improvvisamente cade sul quarto piano e lo butta giù. Il bambino è stupefatto. Magari non le piaceva? Vuole andare via? Si è stufata? O sta male? Ma lei sorride di nuovo e lui si riaccende. Insieme ricominciano a mettere sabbia sull’altra, ed il quarto piano è di nuovo intatto.

L’unica cura per Chloè è quella di circondarla di fiori, che spaventino la ninfea e la faccia rinsecchire, per poi asportarla chirurgicamente. E tutto questo sa di vita adulta. Prima voli su una nuvola di plastica sopra il cantiere della vita, lì sotto tutti lavorano e te sopra a ridere. Poi. Poi devi fare i conti con le responsabilità, e devi iniziare a lavorare.

Questo il protagonista fa. Inizia a lavorare, perché i soldi che aveva sono finiti, e non riesce a permettersi più i fiori necessari per l’amata compagna. E il lavoro…è quanto di più difficile per un “nullafacente”. A queste parole il protagonista si alza e gridando “coglioni!” esce dall’ufficio. Non è fatto per tutto questo.

Il quinto piano si costruisce a fatica, ma non è questo che preoccupa il bambino. La risacca si è fatta più intensa, il mare ora non li accarezza più, sbatte sui loro corpi. Si sono messi di spalle all’acqua per difendere il castello di sabbia. O per cercare di non vedere la schiuma che avanza?

Dall’altra parte c’è un altro personaggio la cui vicenda è importante: Chick, l’amico del protagonista. Un drogato. È innamorato di una donna ma non può sposarla perché non ha soldi, e quelli che ha li spende in droga: quale droga? Opere, pipe e busti del filosofo Jean Sol Partre. Questa la sua droga. E questo nome mi ricorda qualcosa. Il gioco delle lettere scambiate è talmente semplice che pare voluto il collegamento, e probabilmente bisogna levare il “pare”. È voluto. Jean Paul Sartre, il filosofo dell’esistenzialismo ateo. Colui che bene o male diceva che l’uomo è libero di aspirare ad essere Dio della propria vita e che deve però scontrarsi con l’amara costatazione di essere un Dio fallito. Questa la droga di Chick. Questa la droga dell’uomo al giorno d’oggi?

Il clacson non serve. Il camion non se ne va. Bisogna prendere una decisione. Superare a sinistra, passando per la pioggia. Tanto è un attimo. Il tempo di superare e rientrare.

La risacca è potente e spinge i bambini verso il castello. Inavvertitamente il piede di lui fa crollare il sesto piano e il quinto dietro di lui. Si sente in colpa. Non sa che fare e nell’agitazione del momento, messo alle strette, con un movimento distratto fa crollare anche il quarto. Lei lo guarda. Non sorride più. E neanche lui.

Non vi dirò come finisce il film. Non vi dirò nient’altro. Solo quello che ho provato.

La bambina con un movimento simile, ma per niente distratto, anzi, voluto, tira un pugno fortissimo al petto di lui. Il bambino cade all’indietro. Vorrebbe iniziare a piangere ma il pensiero che quel gesto sarebbe infantile lo blocca e lo spaventa allo stesso tempo. Quand’è che ha imparato cosa vuol dire “infantile”?

Sull’autostrada del cuore la macchina sterza a sinistra, e sotto la pioggia che per la prima volta cade sull’auto trasparente accelera e tenta di superare il camion, ma anche questo aumenta la velocità. La macchina non riesce a superarlo e la velocità è già al massimo, tanto che non si riesce a tenere bene la guida su questa strada bagnata. All’improvviso lo vede. Vede il cuore. Il pensiero di essere arrivato lo conforta giusto il tempo di crollare sul pensiero che sta andando troppo veloce, e che la macchina sta sbandando. Non riesce più a controllarla. Il camion si ferma d’improvviso. Ma non si può più tornare al sole. Il colpo al cuore è stratosferico. E l’impatto lascia un enorme livido bluastro, tendente all’indaco.

Il bambino si risveglia. Non gli va più di giocare. Non gli va più di costruire castelli, tantomeno sulla sabbia. Non ha trovato conforto neanche nell’amore quando è arrivata la paura. La paura. L’angoscia. Proprio quella è tornata ora. Al risveglio. Perché è tutto bianco e nero? Cos’è questa barba? Dove sono i miei capelli? Dove sono io?

Ha dormito per tanto tempo, le settimane l’hanno preso e la schiuma dei giorni l’ha buttato in questo mare immenso, bianco e nero, che è la vita.
 
 

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